sabato 6 agosto 2016

Telethon, un modello di ricerca di eccellenza da replicare

Un modello di finanziamento alla ricerca che sia di esempio per il paese, è questo il messaggio alle istituzioni lanciato dalla Fondazione Telethon in occasione dell’evento “Come ricerca e innovazione possono diventare un volano per l’economia del Paese” che si  è svolto presso l’Istituto Telethon di genetica e medicina (Tigem) di Pozzuoli alla presenza del Presidente del Consiglio dei Ministri Matteo Renzi. Sono intervenuti il direttore del Tigem Andrea Ballabio, il direttore generale della Fondazione Telethon Francesca Pasinelli, il presidente della Fondazione Telethon Luca Cordero di Montezemolo, il presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca.
Fin dai primi anni della sua attività la Fondazione Telethon ha deciso di investire i fondi raccolti, non solo mettendoli a disposizione dei ricercatori italiani grazie a bandi competitivi che premiano il merito, ma anche attraverso due istituti dedicati allo studio delle malattie genetiche rare: l’Istituto Telethon di Genetica e Medicina Tigem di Pozzuoli e l’Istituto San Raffaele – Telethon (SR-Tiget) di Milano.

Questa scelta nasce proprio dalla volontà della Fondazione Telethon di assicurare un investimento costante e di lungo periodo a programmi di ricerca dedicati allo studio delle malattie genetiche rare e allo sviluppo di terapie mirate e innovative, prima fra tutte la terapia genica. Un approccio premiato da una crescita costante della produttività scientifica e della capacità di attrarre finanziamenti internazionali e industriali, grazie a un monitoraggio costante dei risultati, il reclutamento diretto dei ricercatori e lo sviluppo di facilities per la ricerca. Non è un caso quindi che Telethon sia la sola charity italiana “titolare” di una vera e propria pipeline di sviluppo, ovvero un programma consistente di strategie terapeutiche mirate per diverse malattie genetiche rare. Porta infatti la firma di Telethon la prima terapia genica con cellule staminali resa disponibile sul mercato, Strimvelis, e diverse altre sono in fase avanzata di sperimentazione o stanno per entrare nella fase di studio clinico sui pazienti.

Risultati d’eccezione, resi possibili da una visione strategica che affianca a una selezione rigorosa dei progetti di ricerca, competenze in tutti quei settori che rendono possibile la reale traslazione alla clinica: tutela della proprietà intellettuale, alleanze strategiche con il mondo dell’industria farmaceutica, competenze regolatorie e di sviluppo clinico.

Esempio concreto dell’applicazione del modello di finanziamento Telethon e allo stesso tempo di come in Italia sia possibile fare ricerca di eccellenza è il Tigem, il primo istituto fondato da Telethon nel 1994, ubicato nell’area dove un tempo sorgeva il prestigioso stabilimento Olivetti. In 22 anni di attività il Tigem ha dimostrato di saper capitalizzare il finanziamento di Telethon di oltre 67 milioni di euro ottenendo finanziamenti esterni, italiani, internazionali e industriali, che dal 1999 ad oggi ammontano a circa 70 milioni di euro.

Degna di nota è la capacità dell’istituto di ottenere i prestigiosi grant ERC: degli 86 finanziamenti assegnati fra il 2007 e il 2015 nel settore delle scienze della vita a ricercatori attivi in Italia (esclusi cioè quelli assegnati a ricercatori italiani attivi però all’estero), 8 sono stati assegnati a ricercatori del Tigem per un totale di circa 15 milioni di euro: si tratta del 9% di tutti i finanziamenti ERC assegnati all’Italia e il 70% di quelli della Campania.

Questa capacità attrattiva si è tradotta anche in nuovi posti di lavoro ad alta specializzazione. Nel 1994 i ricercatori erano meno di 70, mentre attualmente sono 210, molti assunti nel corso degli ultimi due anni: venti in particolare sono gli stranieri che hanno deciso di trasferirsi in Italia per condurre qui la loro ricerca.

Il Tigem vanta anche importanti accordi industriali, primo fra tutti quello siglato nel 2012 con la multinazionale farmaceutica Shire, per un finanziamento totale di circa 17 milioni di euro per sviluppare approcci di terapia genica o farmacologica su malattie rare di tipo neurodegenerativo e da accumulo lisosomiale.

Andrea Ballabio, direttore del Tigem, che ad oggi è l’unico ricercatore in Italia insignito del prestigioso premio Louis-Jeantet (2016), ha spiegato: “Molte sono le scoperte fatte al Tigem sui meccanismi alla base delle malattie genetiche. Inoltre, il nostro Istituto oggi è un vero centro di ricerca traslazionale, dove le scoperte fatte in laboratorio hanno la possibilità di tradursi in terapie. Ciò è avvenuto ad esempio con la terapia genica per malattie rare come l’amaurosi congenita di Leber, una forma di cecità ereditaria. Stiamo inoltre per avviare uno studio clinico con terapia genica per il trattamento della mucopolisaccaridosi tipo VI, malattia caratterizzata da gravi problemi soprattutto a carico di ossa e articolazioni. Abbiamo anche dato vita a un progetto dedicato alle malattie senza diagnosi, il primo in Italia che si ispira ad analoghi programmi internazionali”.

Francesca Pasinelli, direttore generale della fondazione Telethon ha commentato: “I risultati raggiunti dall’Istituto Telethon di Pozzuoli sono la dimostrazione dell’efficacia di un modello di gestione del finanziamento della scienza. A ulteriore conferma vi è il recente successo dell’Istituto San Raffaele-Telethon di Milano: per la prima volta al mondo è stata immessa in commercio ed è oggi disponibile per tutti i pazienti una terapia genica, Strimvelis, per la cura di una rara malattia genetica l’ADA-SCID che compromette gravemente il sistema immunitario dei bambini che ne sono colpiti. Un risultato reso possibile grazie a un’alleanza strategica con l’industria farmaceutica GlaxoSmithKline (GSK). Negli Istituti Telethon si concretizzano competenza, valorizzazione del merito, innovazione, capacità di collaborazione tra pubblico e privato e coraggio negli investimenti: elementi che se fossero replicati su larga scala potrebbero permetterci di ambire a un ruolo di primo piano nel panorama internazionale, come molte volte auspicato ma non ancora messo in pratica”.

Luca Cordero di Montezemolo, presidente della Fondazione Telethon ha sottolineato: “Nell’attuale scenario che caratterizza l’Italia dove spesso prevale l’insoddisfazione o l’autocommiserazione per quanto non funziona, esistono realtà di cui andare orgogliosi che dimostrano come anche in Italia si possano valorizzare le competenze e i ‘cervelli’ formati nelle nostre Università. La Fondazione Telethon ne è un esempio. Uno dei problemi del nostro Paese è la scarsa capacità di utilizzare nella maniera più produttiva le risorse disponibili. Non di rado sono stati restituiti all’Europa fondi inutilizzati. L’Istituto Telethon di Pozzuoli, al contrario, ha dimostrato di saper ben spendere i finanziamenti ottenuti. Se la ricerca scientifica italiana lavorasse con gli stessi parametri di produttività e la stessa capacità dei ricercatori Telethon di attrarre fondi, si creerebbe un valore tale da rendere la ricerca davvero un volano di crescita e sviluppo economico”.

La Fondazione Telethon ha investito in ricerca dalla sua nascita oltre 450 milioni di euro, ha finanziato oltre 2500 progetti con oltre 1500 ricercatori coinvolti e più di 470 malattie studiate. Ad oggi grazie a Telethon sono state messe a punto terapie per alcune malattie rare prima considerate incurabili (ADA-SCID, leucodistrofia metacromatica e sindrome di Wiskott Aldrich). Per altre malattie, inoltre, sono in corso o in fase di avvio studi clinici per la valutazione di nuove terapie, mentre continua nei laboratori finanziati da Telethon lo studio dei meccanismi di base e di potenziali approcci terapeutici per patologie ancora senza risposta.

O.MA.R. (Osservatorio MAlattie Rare) - Autore: Redazione

lunedì 25 luglio 2016

Insonnia, per recuperare una notte in bianco meglio non fare nulla. Un esperto del sonno spiega perché

Una notte insonne è quanto di più odioso possa capitare, soprattutto d'estate. Ci si gira e rigira nel letto in attesa del sonno, che non arriva. E il giorno dopo si va al lavoro con le occhiaie e senza forze. Per recuperare si cerca allora di schiacciare un pisolino durante il pomeriggio o di andare a letto presto la sera successiva. Niente di più sbagliato. Come spiega il dottor Micheal Perlis, del "Behavioral sleep medicine program" alla Perelman School of Medicine della University of Pennsylvania, al Wall Street Journal ciò che bisogna fare durante e dopo una notte insonne è semplice: nulla. Solo così si ristabilirà un equilibrio: "Non dormite fino a tardi il mattino successivo, non schiacciate un pisolino e non andate a dormire presto la sera e vedrete che tutto tornerà a posto".
A quanto pare, dunque, è la routine a garantire sonni tranquilli: se qualcosa va ad alterarla, basta cercare di stabilizzarla al più presto. La mancanza di concentrazione, gli occhi che si chiudono, la stanchezza possono essere i tipici sintomi del "giorno dopo": si tratta di sopportarli per un giorno intero, un giorno soltanto, se si riuscirà a non correre subito ai ripari e a non cedere al bisogno di fare un riposino o di posticipare la sveglia.


"Cercare di compensare il sonno perso può peggiorare l'insonnia cronica perché rende più difficile addormentarsi la notte successiva", ha spiegato Perlis tempo fa a "Science of Us". "Le persone sono molto concentrate sulle ore di sonno che riescono a dormire. In questo modo dimenticano che ciò che le rende esauste non sono le sole sei ore dormite. Aspettare il sonno, rimanere a letto nel bel mezzo della notte fissando il soffitto: è questo ciò di cui bisogna sbarazzarsi". E per riuscirci c'è un solo modo: non fare nulla.


Huffington Post - di Ilaria Betti
Pubblicato il 14/07/2016

venerdì 24 giugno 2016

I segreti del sonno

Passiamo un terzo della vita dormendo. Ma dopo anni di ricerche non sappiamo ancora con esattezza perché.

Cheryl Dinges ha 29 anni, viene da St. Louis, ed è un sergente dell'esercito americano. Il suo lavoro è addestrare i soldati ai combattimenti corpo a corpo. Esperta di jujitsu, Dinges afferma di essere una delle poche donne dell'esercito abilitate al combattimento di secondo livello, che consiste, spiega, in un lungo addestramento al combattimento uno contro due.

Ma negli anni a venire il sergente Dinges potrebbe dover affrontare una battaglia ben più dura. La sua famiglia infatti è portatrice del gene dell'"insonnia familiare fatale", o Iff. Il sintomo principale di questa malattia è l'impossibilità di dormire. All'inizio si perde la capacità di schiacciare sonnellini, poi di dormire tutta la notte, infine di dormire del tutto. La sindrome di solito compare intorno ai 50 anni, dura all'incirca un anno, e, come indica il nome, finisce con la morte del paziente. Dinges ha rifiutato di sottoporsi al test per individuare il gene della malattia. "Avevo paura che, sapendo di averla, non mi sarei impegnata così tanto nella vita, che mi sarei arresa".

La Iff è una malattia terribile, resa ancora peggiore dal fatto che ne sappiamo molto poco. Dopo anni di studio, i ricercatori
sono arrivati a capire che nei pazienti affetti da Iff, proteine malformate chiamate prioni attaccano il talamo, una struttura posta all'interno del cervello, e che un talamo danneggiato interferisce con il sonno. Purtroppo i ricercatori ignorano perché avvenga e come impedirlo, o come alleviare i sintomi della malattia. Prima che si cominciasse a studiare la Iff, molti non sapevano neppure che il talamo fosse collegato ai meccanismi del sonno. La Iff è una malattia estremamente rara, nota solo in 40 famiglie nel mondo, ma ha qualcosa in comune con le forme meno gravi di insonnia che affliggono milioni di persone: è ancora un mistero.


Se non sappiamo perché non riusciamo a dormire, è anche perché ignoriamo la ragione per cui abbiamo bisogno di farlo. Sappiamo che se non dormiamo il sonno ci manca, e che per quanto cerchiamo di resistergli, alla fine ne siamo vinti. Sappiamo che da sette a nove ore dopo che ci arrendiamo siamo quasi tutti pronti a rialzarci dal letto e che, da 15 a 17 ore dopo, siamo di nuovo stanchi. Da mezzo secolo sappiamo anche che il nostro riposo si divide tra fasi di sonno a onde lente e fasi di cosiddetto sonno Rem (rapid eye movement), durante il quale il cervello è attivo come quando siamo svegli ma i nostri muscoli volontari sono paralizzati.

Sappiamo che tutti i mammiferi e i volatili dormono. Il delfino lo fa con metà del cervello sveglia, così può continuare a controllare il suo ambiente subacqueo, e quando i germani reali dormono in fila, i due individui alle estremità riescono a mantenere metà del cervello vigile, e un occhio aperto, per proteggersi dai predatori. Anche i pesci, i rettili e gli insetti praticano una forma di riposo.

Questa inattività ha un prezzo. Gli animali devono restare a lungo immobili, diventando facili prede. Che vantaggio offre quindi? "Se non ha alcuna funzione vitale", ha detto lo studioso Allan Rechtschaffen, "allora il sonno è il più grosso errore che l'evoluzione abbia mai fatto".

La teoria prevalente sul sonno è che sia necessario al cervello. Un'idea dettata dal buon senso: chi non si sente più lucido dopo una bella nottata di sonno? Il problema è supportare questa ipotesi con i dati. In che modo il sonno aiuta il cervello? La risposta può variare a seconda del tipo di sonno di cui si parla. Di recente, ad Harvard, una équipe guidata da Robert Stickgold ha sottoposto gli studenti a una serie di test, poi li ha fatti dormire un po' e li ha sottoposti a nuovi test: quelli che erano entrati nella fase Rem hanno dato risultati migliori nel riconoscimento delle strutture (ad esempio quelle grammaticali), mentre gli studenti entrati in una fase di sonno profondo andavano meglio nella memorizzazione.

Altri ricercatori hanno scoperto che nel sonno il cervello ripete lo stesso schema di firing neuronale (il meccanismo di trasmissione del segnale tra neuroni) di un soggetto appena sveglio, come se, nel sonno, il cervello cercasse di affidare alla memoria a lungo termine le cose apprese durante la veglia.
Queste ricerche fanno pensare che una funzione del sonno possa essere il consolidamento della memoria. Qualche anno fa Giulio Tononi, studioso del sonno dell'Università del Wisconsin a Madison, ha pubblicato un'interessante variazione di questa teoria: durante il sonno il cervello eliminerebbe le sinapsi e le connessioni ridondanti o non necessarie. Lo scopo del sonno potrebbe essere quindi quello di aiutarci a ricordare ciò che è importante e a dimenticare quello che non lo è.

È probabile che il sonno abbia anche funzioni fisiologiche: il fatto che i pazienti affetti da Iff non vivano mai a lungo è significativo. Cosa sia esattamente a ucciderli suscita molto interesse, benché ancora non si sappia. Muoiono direttamente per effetto della privazione del sonno? E se non è così, fino a che punto l'insonnia contribuisce a creare le condizioni che li uccidono? Alcuni ricercatori hanno scoperto che nei ratti la privazione del sonno rallenta la cicatrizzazione, mentre per altri il sonno aiuta a rinforzare il sistema immunitario e a combattere l'insorgere di malattie infettive. Ma i risultati non sono ancora definitivi.

In un celebre esperimento degli anni Ottanta, Rechtschaffen costrinse alcuni ratti a rimanere svegli nel suo laboratorio dell'Università di Chicago mettendoli su un disco ruotante sospeso sopra un recipiente pieno d'acqua. Appena i ratti si addormentavano, il disco si ribaltava facendoli cadere nell'acqua, e loro immediatamente si risvegliavano. Dopo circa due settimane di questo trattamento, i ratti erano tutti morti. Ma quando Rechtschaffen effettuò l'autopsia sulle cavie, non riuscì a trovare nulla che non andasse. Gli animali non presentavano organi danneggiati. Tutto faceva pensare che fossero morti per sfinimento, cioè per non aver più dormito. Neppure un ulteriore esperimento svolto nel 2002 con strumenti più sofisticati riuscì a individuare nei ratti "una chiara causa di morte".

Oggi in pensione dopo 50 anni di ricerca sul sonno, William Dement è uno degli scopritori della fase Rem nonché cofondatore dello Stanford Sleep Medicine Center. Gli chiedo perché dormiamo. "Per quanto ne so", risponde, "l'unica ragione scientificamente provata per cui abbiamo bisogno di dormire è che ci viene sonno".

Sfortunatamente, non è sempre vero il contrario: non sempre ci viene sonno quando abbiamo bisogno di dormire. Nel mondo sviluppato l'insonnia ha una diffusione epidemica. Sono da 50 a 75 milioni, quasi un quinto della popolazione, gli americani che accusano problemi di insonnia. In Italia a soffrirne sono 12-15 milioni (soprattutto donne), di cui 5-6 in forma grave, ovvero da compromettere le attività diurne, la salute e l'umore. Malgrado ciò, si fa davvero poco per comprendere le cause principali dell'insonnia. Gli studenti di medicina seguono giusto qualche ora di tirocinio sui disturbi del sonno, e alcuni neanche quelle.

I costi sociali ed economici derivanti dall'inadeguatezza del trattamento terapeutico dell'insonnia sono enormi. L'Institute of Medicine, un organismo nazionale indipendente di consulenza scientifica, stima che quasi il 20 per cento dei più gravi incidenti tra veicoli a motore sia stato causato dalla sonnolenza di un guidatore. Questo dato colloca il costo medico diretto del nostro debito collettivo di sonno sui dieci miliardi di dollari. Le perdite in termini di calo della produttività lavorativa sono ancora maggiori. E infine ci sono i costi più lievi: relazioni personali compromesse o fallite, opportunità di lavoro perse, e incapacità di godere dei piaceri della vita.

Se esistesse un problema sanitario di tali proporzioni legato a una funzione fisica meno  oscura e misteriosa, i governi gli avrebbero già dichiarato guerra. Purtroppo il National Institutes of Health riserva alla ricerca sul sonno un contributo di soli 230 milioni di dollari l'anno: una cifra paragonabile a quella che nel 2008 le aziende produttrici di due noti sonniferi avrebbero speso per una sola stagione di pubblicità televisiva.

Anche le forze armate spendono soldi nella ricerca sul sonno, ma il loro principale interesse è quello di tenere i soldati svegli e pronti al combattimento, non certo di assicurare loro un buon riposo notturno. Il risultato è che la lotta contro l'insonnia è lasciata perlopiù all'iniziativa delle aziende farmaceutiche e dei centri per la cura dei disturbi del sonno.

Lo sleep medicine center di Stanford, fondato nel 1970, è stata la prima struttura dedicata al problema dell'insonnia negli Stati Uniti, ed è ancora oggi una delle più autorevoli. Il centro visita più di 10 mila pazienti all'anno e ogni anno conduce più di 3.000 monitoraggi notturni del sonno. Le 18 stanze destinate ai pazienti hanno un aspetto accogliente, con letti morbidi e confortevoli. Le apparecchiature per il monitoraggio sono nascoste negli arredi.

Il principale strumento diagnostico è il polisonnogramma, e l'elemento più importante del polisonnogramma è l'elettroencefalografo (Eeg), che registra l'attività bioelettrica del cervello dei pazienti mentre dormono. Quando ci addormentiamo, l'attività del nostro cervello rallenta, e il suo tracciato elettrico muta da onde brevi e frastagliate a onde più lunghe e morbide, come il moto ondoso del mare che si appiana man mano che ci si allontana dalla costa. Nel cervello queste onde morbide sono interrotte da una ripresa dell'attività mentale eccitata tipica della fase Rem, quella in cui (per ragioni ignote) svolgiamo quasi tutta la nostra attività onirica.       

Mentre l'Eeg registra quest'attività, il polisonnogramma misura temperatura, attività muscolare, movimento oculare, ritmi cardiaci e respiro. Poi si analizzano i dati in cerca di segnali di sonno anormale o risvegli frequenti: chi soffre di narcolessia, ad esempio, piomba dallo stato di veglia alla fase Rem senza passaggi intermedi. Il malato di insonnia familiare fatale, invece, non riesce mai ad andare oltre le prime fasi del sonno, e la sua temperatura corporea si alza e si abbassa bruscamente.

Iff e narcolessia non possono essere diagnosticate senza l'Eeg e altri strumenti di monitoraggio. Ma Clete Kushida, il direttore della clinica, mi dice che il più delle volte riesce a individuare i problemi del sonno dei pazienti già al primo colloquio: ci sono quelli che non riescono a tenere gli occhi aperti, e quelli che non parlano d'altro che della loro stanchezza ma non riescono neppure ad appisolarsi. I primi spesso soffrono di apnee notturne, gli altri di quella che Kushida chiama "vera insonnia".

In chi è affetto da apnee ostruttive notturne, il rilassamento muscolare che sopraggiunge con il sonno fa chiudere il tessuto molle della gola e dell'esofago, ostruendo il passaggio dell'aria. Quando il cervello realizza che non sta più ricevendo ossigeno, manda al corpo un segnale d'emergenza per farlo risvegliare. Il paziente si sveglia, prende fiato, il cervello viene ossigenato, e si riaddormenta. Per chi soffre di apnee, il sonno notturno diventa in effetti una successione di mini-pisolini. Le apnee notturne sono la voce più cospicua del business legato al sonno. John Winkelman, del Brigham and Women's Hospital, afferma che il disturbo viene diagnosticato a due terzi dei pazienti esaminati presso il suo centro.

Quello delle apnee notturne è un problema serio, che fa aumentare il rischio di attacchi di cuore e di ictus cerebrale. Ma è solo indirettamente una malattia del sonno. I veri malati di insonnia - ai quali viene diagnosticata quella che alcuni specialisti chiamano insonnia psicofisiologica - sono persone che, per motivi ignoti, o non si addormentano o non riescono a restare addormentate. Si svegliano e non si sentono riposate. Vanno a letto ma il loro cervello continua a rullare. Questo gruppo costituisce circa il 25 per cento dei pazienti esaminati nelle cliniche del sonno.

Mentre le apnee si possono curare con uno strumento che forza l'aria nella gola del paziente addormentato per tenergli aperte le vie respiratorie, la cura dell'insonnia classica non è così semplice. L'agopuntura può giovare: nella medicina asiatica viene usata da tempo a tale scopo, ed è attualmente studiata dal centro per i disturbi del sonno dell'Università di Pittsburgh.

Di solito l'insonnia psicofisiologica viene curata in due fasi. Nella prima si utilizzano i sonniferi, che hanno quasi tutti l'effetto di aumentare l'attività del Gaba, un neurotrasmettitore che inibisce il livello generale di eccitazione e lo stato di vigilanza del corpo. Benché meno dannosi di un tempo, i sonniferi possono creare dipendenza. Molti di coloro che ne fanno uso lamentano che il sonno indotto dai farmaci sembra diverso, e che al risveglio ci si sente come dopo una sbornia.

"I sonniferi non sono un modo naturale di dormire", conferma Charles Czeisler dell'Harvard Work Hours, Health and Safety Group. Anzi, in prospettiva, possono peggiorare il problema, provocando la cosiddetta insonnia di rimbalzo.

La seconda fase del trattamento dei malati di insonnia è la terapia cognitivo-comportamentale (Tcc). In questa terapia, uno psicologo specializzato insegna al paziente a pensare al proprio problema come a qualcosa di gestibile, persino di risolvibile (è la parte cognitiva) e a praticare una buona "igiene del sonno". Questa consiste perlopiù in una serie di pratiche ben collaudate, come dormire in una stanza buia, andare a letto solo quando si ha sonno, e non fare esercizio fisico prima di andare a dormire. Alcune ricerche hanno dimostrato che la Tcc è più efficace dei sonniferi nel trattamento dell'insonnia cronica, ma molti di coloro che ne soffrono non ne sono convinti.

Winkelman è convinto che la Tcc aiuti più certi tipi di malati di insonnia rispetto ad altri. L'insonnia comprende una gran varietà di condizioni: tra la Iff, che è estremamente rara, e le apnee notturne, che sono invece molto comuni, sono stati individuati quasi 90 disturbi del sonno, senza contare la miriade di motivi, più difficili da catalogare, per i quali le persone non riescono a dormire.

Alcuni soffrono della sindrome delle gambe senza riposo, un grave senso di insofferenza delle gambe che impedisce di prendere sonno, altri del disturbo da movimento periodico degli arti, che produce un involontario scalciare durante il sonno. I narcolettici spesso hanno difficoltà sia a dormire che a stare svegli. Poi ci sono le persone che non riescono a dormire perché sono depresse, e quelle che sono depresse perché non riescono a dormire.

C'è chi ha problemi ad addormentarsi per via della demenza o del morbo di Alzheimer, donne che dormono male durante il ciclo mestruale, altre durante la menopausa. Gli anziani in genere dormono meno bene dei giovani. Altre restano sveglie perché si preoccupano per il lavoro o temono di perderlo, un problema particolarmente sentito in periodi di crisi come quello attuale.

Di tutti questi insonni, quelli che non dormono per cause fisiche, probabilmente per eccesso o mancanza di vari neurotrasmettitori, sono quelli che rispondono meno alla Tcc. Eppure, la terapia cognitivo-comportamentale viene proposta come possibile cura per quasi tutti questi disturbi. Forse questo accade perché per molto tempo il problema dell'insonnia è stato soprattutto di competenza degli psicologi. Per loro, l'insonnia è quasi sempre causata da qualcosa di trattabile con i loro strumenti, come l'ansia o la depressione.

La Tcc chiede al paziente cosa c'è di sbagliato nel suo comportamento, non nel suo corpo. Winkelman vorrebbe invece che i due aspetti, quello fisico e quello mentale, venissero considerati assieme. "Il sonno è straordinariamente complicato", spiega. "Perché escludere che ci sia anche qualcosa che non va nei nostri circuiti?".

Se non riusciamo a dormire, forse è perché abbiamo dimenticato come farlo. In passato si dormiva in modo diverso, si andava a letto al tramonto e ci si alzava all'alba. Nei mesi invernali, quando c'era molto tempo per riposare, è probabile che i nostri antenati spezzassero il sonno, dormendo a più riprese. Nei paesi in via di sviluppo c'è ancora chi fa così. Si dorme in gruppi e, di tanto in tanto, nel corso della notte, ci si alza. C'è chi dorme all'aperto, dove fa meno caldo e l'effetto della luce solare sul ritmo circadiano è più diretto.

Nel 2002, Carol Worthman e Melissa Melby, della Emory University, hanno pubblicato una ricerca comparata sui diversi modi di dormire nelle diverse culture, e hanno osservato che tra i gruppi sociali dediti esclusivamente alla ricerca del cibo, come i !Kung e gli Efe, "i confini tra sonno e veglia sono molto fluidi". Non esiste un orario fisso per andare a dormire, e nessuno dice all'altro quando farlo. Chi dorme si alza quando il suo riposo è interrotto da una conversazione o un'esecuzione musicale che lo interessa, e alla quale può partecipare per poi tornare a dormire.

Nei paesi sviluppati nessuno dorme più così, perlomeno non di proposito. Andiamo a letto a un'ora più o meno prefissata, e dormiamo soli o con la persona con cui viviamo su morbidi materassi rivestiti da lenzuola e coperte. Oggi, rispetto a un secolo fa, si dorme in media circa un'ora e mezzo in meno a notte. Forse l'epidemia di insonnia che ci affligge dipende dal non voler prestare attenzione al nostro orologio biologico. I ritmi naturali del sonno degli adolescenti richiederebbero un risveglio in tarda mattinata, e invece eccoli lì, tutti a scuola alle 8.00 del mattino. L'operaio che fa il turno di notte e dorme al mattino va contro i ritmi ancestrali del suo corpo, che gli impongono di svegliarsi per cacciare o procurare cibo quando il cielo è inondato di luce.

È a nostro rischio e pericolo che combattiamo contro questi ritmi. A febbraio del 2009 un aereo in volo da Newark a Buffalo si è schiantato uccidendo tutti i 49 passeggeri a bordo e una persona che si trovava sul luogo dell'impatto. Nella giornata precedente il disastro, il copilota, e probabilmente anche il pilota, avevano dormito poco. Il National Transportation Safety Board è giunto alla conclusione che il loro rendimento "è stato probabilmente compromesso dalla stanchezza". Questo genere di notizie fa imbestialire Charles Czeisler: restare svegli per 24 ore, spiega, o fare solo cinque ore di sonno a notte per una settimana, equivale ad avere nel sangue un tasso alcolico pari allo 0,1 per cento. Eppure la moderna etica aziendale esalta simili comportamenti.

Dal 2004, Czeisler ha pubblicato su alcune riviste mediche una serie di rapporti basati su uno studio condotto dal suo gruppo di ricerca su 2.700 medici tirocinanti. Due volte a settimana questi giovani, uomini e donne, svolgono un turno di lavoro che dura 30 ore. La ricerca di Czeisler ha messo in luce il rischio, notevolmente alto, per la salute pubblica che questa privazione del sonno comporta. "Un tirocinante su cinque ha ammesso di aver compiuto per stanchezza un errore che ha danneggiato un paziente", racconta Czeisler. "E uno su 20 ha ammesso di aver compiuto, sempre per stanchezza, un errore che ha causato la morte di un paziente".

Quando Czeisler ha pubblicato questi dati, si aspettava che gli ospedali lo ringraziassero. Invece in molti hanno assunto una posizione difensiva. Czeisler pensa che non cambierà nulla finché i datori di lavoro non cominceranno a prendere sul serio i problemi legati all'insonnia e alla privazione del sonno. "Un giorno questo sistema sarà considerato incivile".

E ora parliamo della siesta. Il tradizionale riposo pomeridiano corrisponde a un naturale rallentamento postprandiale dei nostri ritmi circadiani, e alcuni studi hanno dimostrato che chi dorme un po' il pomeriggio è in genere più produttivo e forse meno esposto al rischio di cardiopatie mortali. A rendere famosa la siesta sono stati gli spagnoli, che però, sfortunatamente, non vivono più così vicini al posto di lavoro da potersi permettere di andare a casa a schiacciare un pisolino. Alcuni di loro invece impiegano la pausa pomeridiana per intrattenersi in interminabili pranzi al ristorante con amici e colleghi. Dopo aver trascorso due ore attorno a un tavolo, i lavoratori spagnoli sono costretti a lavorare fino alle sette o le otto della sera. E anche dopo, non tornano sempre a casa, ma vanno a bere o a cenare fuori.

Negli ultimi tempi gli spagnoli hanno cominciato a prendere sul serio il problema della privazione del sonno. Oggi ad esempio la polizia chiede ai guidatori coinvolti in gravi incidenti stradali quanto avevano dormito la notte prima, e il governo ha di recente imposto ai lavoratori statali turni di lavoro più brevi per cercare di farli rientrare a casa prima.

Ciò che ha indotto la Spagna a prendere questo genere di provvedimenti non è stato tanto il tasso di frequenza degli incidenti (fra i più alti d'Europa) quanto il ristagno produttivo del paese. Gli spagnoli passano più tempo degli altri al lavoro, ma la loro produttività è inferiore a quella di quasi tutti i loro vicini europei. "Una cosa è accumulare ore sul cartellino, un'altra svolgere il proprio lavoro", ha ammonito dalle pagine di un quotidiano madrileno Ignacio Buqueras y Bach, l'uomo d'affari spagnolo che guida il tentativo di mandare i suoi connazionali a letto prima. "Ogni tanto dobbiamo chiudere gli occhi", dice Buqueras, "non siamo mica macchine".

Nel 2006 una commissione formata da Buqueras è entrata a far parte del governo spagnolo. Qualche tempo fa ho avuto l'opportunità di assistere a un incontro della commissione nell'edificio annesso al Congreso de los Diputados, la camera bassa spagnola. Si parlava di incidenti provocati da lavoratori esausti, delle donne spagnole estenuate da lunghe ore di lavoro e faccende domestiche, e di bambini privati delle necessarie 10-12 ore di sonno. Ai membri della commissione veniva chiesto di contattare le reti televisive per chiedere di anticipare il palinsesto di prima serata.

Buqueras cercava di tenere alto il ritmo del dibattito, invitando gli oratori alla brevità. Ma le luci erano basse, faceva caldo, e tra gli astanti ha iniziato a diffondersi un certo torpore. Le teste si accasciavano sui petti, subito rialzate nel tentativo di resistere, le palpebre si facevano sempre più pesanti, mentre in sala si cominciava a scontare il debito di sonno di un'intera nazione.
 
 
di D.T. Max - Da National Geographic Italia, maggio 2010

lunedì 13 giugno 2016

Insonnia fatale familiare, ne soffrono 200 persone al mondo. Speranze di cura arrivano dalla ricerca, anche italiana

In questi giorni diverse testate nazionali riportano la storia – tratta dal The Independent e dalla tv australiana Nine News - dei “fratelli che non dormono mai” potenzialmente affetti da insonnia familiare fatale. I due ragazzi australiani in realtà, a dispetto dei titoli sensazionalistici, non hanno ancora sviluppato la malattia che non permette loro di addormentarsi ma non è detto che nel giro di poco tempo sviluppino i primi sintomi. In pochi sanno però che la patologia è stata scoperta in Italia da un medico trevigiano e nonostante non abbia ancora una valida cura la ricerca è tutt’altro che ferma.

L’insonnia fatale familiare è una malattia genetica rara appartenente al gruppo delle malattie prioniche. L’organo colpito, come per tutte quelle del gruppo, è il cervello che si “intasa” con accumuli di proteine. I sintomi sono devastanti: sudorazione continua, tremori, disturbi comportamentali, decadimento cognitivo, inarrestabile dimagrimento e, sintomo principe, l’impossibilità a prendere sonno. A soffrirne sono circa 200 persone al mondo, 5 le famiglie colpite in Italia dal disturbo. Generalmente la patologia compare intorno ai 50 anni e il decorso non lascia scampo: l’aspettativa di vita varia dai 6 mesi ai 2 anni dalla comparsa dei sintomi.
Anche se la malattia è stata descritta su una rivista scientifica – il New England Journal of Medicine - a metà degli anni ’80, le prime osservazioni dirette dei sintomi sono state descritte a partire dal 1970. I primi referti che descrivono la misteriosa patologia sono a firma di Ignazio Roiter, medico dell’ Azienda ULSS 9 - Ospedale Ca' Foncello di Treviso. Osservando la morte di diverse persone all’interno della stessa famiglia il medico veneto cominciò lo studio a ritroso dell’albero genealogico familiare. Analizzando i registri di battesimo e morte riuscì a ricostruire sommariamente il tipo di ereditarietà. Oggi, grazie alle analisi genetiche, si è riusciti a stabilire che in tutti i casi di malattia è presente una mutazione genetica a livello del cromosoma 20. Attenzione però ad interpretare il risultato: possedere la mutazione non equivale a sviluppare necessariamente l’insonnia familiare fatale.
Cure, al momento, purtroppo non ce ne sono. Buone speranze giungono però dalla ricerca. Diversi studi hanno dimostrato che nelle malattie prioniche (l’insonnia familiare è una di queste, così come il morbo di Creutzfeldt-Jakob) l’utilizzo delle tetracicline – una categoria di antibiotici - potrebbe migliorare i sintomi del disturbo. Recenti analisi effettuate in animali da laboratorio hanno infatti dimostrato che queste molecole agiscono impedendo l’accumulo a livello cerebrale delle proteine prioniche tipiche di queste malattie. Partendo da questa osservazione sono ora in fase di sperimentazione 4 studi clinici (uno anche in Italia in provincia di Treviso) nell’uomo. Obbiettivo di questi trials è valutare la somministrazione di questi antibiotici in tutte quelle persone –come il caso dei fratelli australiani - portatrici dalla mutazione che potrebbero sviluppare la malattia. Non una cura ma una sorta di “profilassi” per ritardare il più possibile i sintomi dovuti all’accumulo della proteina prionica.

lunedì 9 maggio 2016

I segreti del sonno, ecco chi dorme di più al mondo

Si chiama Entrain, ed è un’app messa a punto dagli scienziati della University of Michigan: ha raccolto dati sulle nostre abitudini notturne. Ecco chi dorme di più...

Gli abitanti di Singapore Giappone, con 7 ore e 24 minuti e 7 ore e 30 minuti, rispettivamente, sono quelli che dormono meno al mondo. Gli olandesi, al contrario, sono quelli che godono di più il piacere ristoratore del sonno, con una media di 8 ore e 12 minuti al giorno. Ma anche gli italiani, con 7 ore e 53 minuti, si difendono bene: sono i dati che emergono dalla mappa mondiale del sonno appena messa a punto da un’équipe di scienziati della University of Michigan, coordinata da Daniel Forger e pubblicata sulla rivista Science Advances. Lo studio, i cui risultati, secondo gli autori, potrebbero aiutare a risolvere la cosiddetta crisi mondiale del sonno, ha svelato inoltre che le donne di solito dormono più degli uomini.

I dati sono stati raccolti usando un’app per smartphone, chiamata Entrain, inizialmente progettata per aiutare gli utenti a recuperare dal jetlag. “Dai dati è emerso”, ha spiegato Forger alla Bbc “che c’è un conflitto tra il nostro desiderio di restare svegli fino a tardi e il ritmo circadiano del nostro corpo, che ci imporrebbe di alzarci presto di mattina.
La società ci spinge ad andare a dormire tardi, mentre l’orologio biologico del corpo vorrebbe ci svegliassimo presto. Questo scenario ci obbliga a sacrificare ore di sonno, un fenomeno che abbiamo chiamato ‘crisi mondiale del sonno’. Per quanto riguarda le nazioni in cui si dorme di meno, mi chiederei proprio cosa fanno gli abitanti di notte: cenano tardi? Continuano a lavorare?”.
Stando all’analisi dei dati dei circa 8mila utenti che hanno consentito il monitoraggio del proprio sonno, le donne dormono, in media, 30 minuti in più degli uomini, in particolare nella fascia d’età tra 30 e 60 anni. E ancora: chi è più esposto alla luce naturale tende ad andare a letto prima degli altri. Ecco qualche altro dato: gli italiani vanno a letto, in media, alle 23:42, e si svegliano alle 7:35. Gli australiani sono quelli che si coricano (22:42) e svegliano (7:35) prima di tutti; dalla parte opposta della classifica ci sono gli spagnoli, che vanno a letto alle 23:45 e si svegliano alle 7:36.
di Sandro Iannaccone tratto da Wired

venerdì 6 maggio 2016

Benedetto Ignazio Roiter ! Telethon

Ha individuato per primo l'insonnia fatale familiare, un'encefalopatia da prioni invariabilmente mortale. Stiamo parlando di Benedetto Ignazio Roiter, presidente dell’Associazione familiari insonnia familiare fatale - malattie da prioni (Afiff)




Nato nel 1948 a Meolo (Ve), Ignazio Roiter si è laureato in Medicina e chirurgia presso l’Università di Padova.

Successivamente si è specializzato in Malattie infettive a in Endocrinologia, rispettivamente presso le università di Modena e di Padova.


Attualmente Ignazio Roiter è responsabile dell'unità operativa di Medicina presso l'Ospedale di Oderzo-Ulss 9 di Treviso.

Scheda riassuntiva di Ignazio Roiter su telethon

mercoledì 4 maggio 2016

Cos'è l'insonnia fatale familiare

Non si dorme più fino a morirne. È l’insonnia fatale familiare (Iff) una rara patologia da prioni, di origine genetica, che colpisce il cervello e per cui non esiste cura. 
È il probabile destino di due fratelli australiani, Lachlan e Hayley Webb, portatori sani (al momento) della Iff. A causa della malattia hanno dovuto dire addio alla nonna, alla mamma e a due zii.
«Mia nonna iniziò a spegnersi dopo la comparsa della malattia - ricorda Hayley -. La sua vista se ne andò, mostrava segni di demenza, aveva allucinazioni e non poteva parlare. È una malattia incredibilmente aggressiva».
I due fratelli, di 28 e 30 anni, stanno ora partecipando a uno studio sperimentale dell'Università della California che ha come obiettivo la ricerca di una cura al momento inesistente.



Descritta per la prima volta nel 1986 in una famiglia italiana, poi in Francia, Germania, Inghilterra, Austria, Giappone, Australia, Pakistan, Cina e Stati Uniti, la malattia si manifesta intorno ai 50 anni e porta alla morte in un arco di tempo che va da sei mesi a due anni. 
I sintomi sono sudorazione continua, tremori, disturbi comportamentali, decadimento cognitivo e un rapido e inarrestabile dimagrimento, ma soprattutto l’impossibilità di “chiudere occhio”, a causa della morte dei neuroni in quelle parti del cervello che controllano l'alternanza tra sonno e veglia.
Sotto accusa, spiega il dottor Ignazio Roiter, medico di Treviso che per primo intuì qualcosa di strano dietro quell'albero genealogico decimato, è una rarissima malformazione genetica, “parente” del morbo della mucca pazza. Legata a un difetto cromosomico che normalmente compare con una probabilità di 1 su 33 milioni, ma che per i parenti della sfortunata dinastia rappresenta una spada di Damocle pronta a colpire in un caso su 4.
Nell'86 il morbo finisce sulle pagine del New England Journal of Medicine, e nel marzo del 2000 la sventurata famiglia veneta seppellisce il suo ultimo morto: un industriale di 47 anni deceduto dopo un'agonia ormai da copione, spiega Roiter. I discendenti di questa ennesima vittima sono in tutto 304, e 50 di loro si sono anche sottoposti a uno specifico test del DNA. 
«Putroppo contro l'azione dei prioni, gli stessi responsabili del morbo della mucca pazza e della malattia di Creutzfeldt-Jakob, a nulla valgono anche i più potenti sonniferi. La malattia ancora oggi non si può contrastare - spiega il neurologo Alberto Albanese della Cattolica di Milano - e porta inevitabilmente alla morte: l'organismo va in tilt». 
«Il tracciato elettroencefalografico dei malati durante il sonno - aggiunge Orso Bugiani, neuropatologo dell'Istituto Besta di Milano - somiglia molto più al tracciato tipico della veglia. L'organismo cede per sfinimento. E finora, nel mondo, sono state descritte circa 25 famiglie con questa malattia». 
«Il prione è una proteina che abbiamo tutti — spiega Roiter —. Una mutazione del genoma la trasforma in una proteina indistruttibile che si accumula nella cellula. Quando l’accumulo diventa critico il neurone si suicida. Quella piccola parte del talamo che è colpita ha un contingente di circa 300 mila neuroni, nulla in proporzione ai miliardi che ci sono nel cervello. Eppure sono quelli critici, perché sono i semafori che fanno passare o fermano gli impulsi esterni. Se mancano quei neuroni, il messaggio è sempre verde, per cui il cervello è inondato da un flusso continuo di stimoli come durante la veglia».
Ora però c’è uno strumento in più per studiare la malattia e comprenderne i meccanismi. Ovvero un topo transgenico in cui è stata inserita la variante maligna della proteina prionica (il prione) e che riproduce le caratteristiche principali della malattia umana.
Il modello è stato sviluppato dal gruppo di Roberto Chiesa del Dipartimento di Neuroscienze dell’IRCCS Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri” di Milano, in collaborazione con Luca Imeri del Dipartimento di Scienze della Salute dell’Università degli Studi di Milano e con Fabrizio Tagliavini della Fondazione IRCCS Istituto Neurologico “Carlo Besta”.
«I primi studi effettuati sul topo modello – spiega Roberto Chiesa - suggeriscono che la causa della disfunzione e della morte dei neuroni sia l’accumulo della proteina prionica nella via secretoria, ovvero in quel compartimento all’interno della cellula in cui transitano le proteine destinate alla membrana cellulare o all’esterno della cellula».
Lo studio, finanziato da Telethon, dal Ministero della Salute e da Fondazione Cariplo, è stato pubblicato sulla rivista PLOS Pathogens ed è un importante passo avanti, anche se la strada verso la cura di questa rara patologia è ancora lunga. I ricercatori, però, avranno la possibilità di studiare la malattia su un animale – e non solo sulle cellule di laboratorio che pur utili non riproducono la complessità del cervello – e potranno valutare l’efficacia di eventuali terapie che auspicabilmente verranno messe a punto.

di Andrea Sperelli tratto da Italia Salute

giovedì 28 aprile 2016

Un corso che insegna ai medici ad ascoltare i pazienti

Chi è costretto a frequentare quotidianamente gli ospedali per le proprie cure o per quelle dei  propri familiari, sa perfettamente quale differenza possa fare, in termini umani ma anche banalmente medici, il fatto di incontrare professionisti aperti al confronto e al dialogo.
Sentirsi ascoltati ed accolti da dottori, infermieri o semplici collaboratori è spesso un elemento fondamentale nel processo di guarigione.
E anche quando ci troviamo ad affrontare malattie incurabili, sapere di poter porre le domande più scomode, più paurose e più nascoste ricevendo attenzione, ascolto e accoglienza, è spesso elemento di grande e fondamentale conforto.
In Europa e nel mondo, l’importanza della relazione medico/paziente è elemento di studio e aggiornamento continuo.
In Italia, come capita spesso, arriviamo un po’ in ritardo: come succede a scuola – in cui solo il caso, e non una progettazione specifica,  porta i nostri studenti ad incontrare insegnanti capaci di costruire relazione e confronto – anche in ospedale, fino ad oggi, la possibilità di avere a che fare con medici e infermieri accoglienti è stata soprattutto una questione di fortuna.
È per iniziare a rispondere a questa mancanza che il 6 e il 7 maggio, a Roma, avrà luogo un corso di formazione mirato a scuotere dalle fondamenta il rapporto medico/paziente e dal titolo intrigante: Raccontare è imparare a dare ascolto.
Il corso si strutturerà come un laboratorio di medicina narrativa: una tecnica che in Italia sta cercando di imporsi da anni e che finalmente sembra aver raggiunto anche qui l’interesse di molti professionisti socio sanitari. La due giorni a partecipazione gratuita sta infatti ricevendo decine di richieste di iscrizione, costringendo gli organizzatori ad un’imprevista necessità di selezione.
Scopo del laboratorio è quello di creare una cultura e una pratica diffusa basata sulle capacità di ascolto dei pazienti.
Condividere, ascoltare e creare relazione sono le tre parole chiave su cui si basa il corso: elementi fondamentali per costruire strategie terapeutiche a misura di paziente.
La condivisione, infatti, aumenta la capacità dei professionisti di generare domande chiare e quesiti clinici rilevanti, migliorando le possibilità di intervento efficace. Ad accorgersene sono stati gli americani, che fin dagli anni ’90 adottano la tecnica in particolare con i pazienti affetti da malattie cronico-degenerative.
A tenere il corso sarà Christian Delorenzo, ricercatore di antropologia medica a Parigi: ” La narrazione, l’ascolto, la capacità di esprimere le proprie emozioni e quelle altrui sono alla base della possibilità di costruire un rapporto tra medico e paziente – spiega Delorenzo – e i benefici non sono esclusivamente legati alla sfera del benessere psicologico. La medicina narrativa facilita, soprattutto, i successi in termini di terapia:  un paziente che si sente ascoltato, e quindi compreso, segue più volentieri la terapia che il medico gli ha dato, perché quella terapia non è più qualcosa di calato dall’alto, ma il risultato di una storia costruita insieme. Quella terapia, sente il paziente, se l’è scelta anche lui”.
Un approccio umanistico, e umano, alla medicina, in un mondo spesso parcellizzato e disumanizzato, e che risulta particolarmente utile per rendere più efficace anche l’azione della medicina tradizionale.
Ascoltare e raccontarsi: due parole d’ordine straordinarie e continuamente sottovalutate.
A quando lo stesso corso, possibilmente obbligatorio e altrettanto gratuito, per gli insegnanti della scuola italiana?
di Vanessa Niri tratto da Wired

giovedì 21 aprile 2016

Elenco Centri Malattie Rare Veneto

L'Elenco completo dei Centri Malattie Rare nel Veneto e nelle altre regioni lo potete trovare a questa pagina >


venerdì 18 marzo 2016

Un successo la Giornata delle Malattie Rare 29 febbraio 2016

Fatti e cifre chiave!

  • Pubblicato in 34 lingue con oltre 300.000 visualizzazioni!
  • Disseminata in tutto il mondo attraverso la condivisione sui social media, in particolare facebook
      • Un nuovo look per il nostro sito è stato lanciato, che è stata più dinamica e coinvolgente che mai!
      • 180.000 visite al rarediseaseday.org !
      • Il numero di testimonianze più che raddoppiato sul sito!
      • Guarda le foto di solidarietà in tutto il mondo; Sollevare e unire le mani ' 
      • Grande copertura mediatica in tutto il mondo: Giornata delle Malattie Rare è stato prevalant in stampa, radio, televisione e on-line! Scopri alcune delle cose scritte in tutto il mondo, qui sulla nostra pagina di supporto .
      • 36.000 tweets con  #rarediseaseday  febbraio 29. L'hashtag  trend  nel Regno Unito e negli Stati Uniti.
      • Il  Thunderclap  campagna ha raggiunto quasi 1,5 milioni di persone sui social media!
      • Abbiamo raggiunto oltre 6 milioni di persone su  Facebook  da solo e gli piace sulla nostra pagina sono ormai ben più di 77.000!
      Ora, vogliamo sentire parlare di eventi ed esperienze su Giornata delle Malattie Rare!
      Carica le tue foto e video sul nostro  sito web  e inviaci la tua rassegna stampa e collegamenti ai video se si ha alcuna copertura mediatica per la nostra  pagina di supporto !
      Se non è stato caricato il 'Sollevare e unire le mani' foto avete ancora tempo. Carica qui !

      venerdì 4 marzo 2016

      Malattie rare, cosa può fare la Rete

      Portali, community, social media: in occasione del Rare disease day ecco cosa dicono gli esperti sulla funzione del Web

      Articolo di Alice Pace su Wired


      Avere un grosso problema ed essere costantemente avvolti da una sfera di duemila, ma anche cinquanta o centomila persone che non possano capirlo, perché nessuno di loro ha mai vissuto niente di simile. Ecco cosa significa convivere una malattia rara: essere isolati, spesso incompresi e sforniti di assistenza solo perché quasi unici nel proprio genere. Fa bene ricordarsi che le patologie che chiamiamo “poco diffuse” colpiscono però tutte insieme oltre 30 milioni di persone in Europa, un milione e mezzo solo nel nostro Paese. Proprio per richiamare l’attenzione del grande pubblico e delle istituzioni sul tema, fare informazione ma soprattutto dare voce ai malati orfani di cura, oggi 28 febbraio si celebra in tutto il mondo il Rare Disease Day, la Giornata dedicata alle malattie rare. Un’opportunità per abbassare le barriere che circondano chi ne soffre per cercare nuovi strumenti di condivisione con l’obiettivo di costruire anche per questi pazienti risposte organizzate per lottare contro il proprio male.
      Forse perché è il nostro pane quotidiano, ma nell’intento di dare un contributo a questa giornata l’occhio ci è cascato proprio sul fatto che un buon punto di partenza nella lotta all’isolamento possa essere una semplice connessione a Internet. Cosa succede quando Web e social media provano ad affacciarsi alla dura realtà delle malattie rare? Ne abbiamo discusso con Eugenio Santoro, responsabile del laboratorio di informatica medica presso l’epidemiologia dell’Istituto Mario Negri di Milano, quest’ultimo dotato di uno specifico Centro di coordinamento per le malattie rare. E abbiamo scoperto che portali e community aperti al pubblico non solo rivestono un ruolo fondamentale per il paziente, ma stanno diventando sempre più influenti all’interno della stessa ricerca clinica. Per questo oggi a fianco della ricerca tradizionale emerge una forte volontà di sinergia tra medici e informatici nei progetti dedicati allo sviluppo di nuovi e più potentistrumenti online. continua a leggere

      giovedì 25 febbraio 2016

      Giornata delle Malattie Rare 29 febbraio 2016

      Il 29 febbraio 2016 sarà la Giornata delle Malattie Rare dal tema "La voce del paziente". Le persone che vivono con o colpite da una malattia rara, associazioni di pazienti, politici, assistenti, medici, ricercatori e l’industria si riuniranno in solidarietà per aumentare la consapevolezza delle malattie rare. Info e aggiornamenti sul sito ufficiale: www.rarediseaseday.org


      venerdì 5 febbraio 2016

      "L'insonnia familiare fatale può condurre alla morte". L'inchiesta della BBC

      L'insonnia è dannosa per il corpo e fastidiosa per chi ne soffre, ma non solo: in alcuni casi può condurre addirittura alla morte. La forma più feroce si chiama "insonnia familiare fatale" e, nel corso della storia, ha colpito solo poche sfortunate famiglie (200 nel mondo, 5 in Italia): è una misteriosa patologia degenerativa dovuta ad un gene mutato, causa mancanza di sonno totale e può condurre al decesso entro pochi anni dalla comparsa dei primi sintomi. La sezione "Future" della BBC le ha dedicato un ampio articolo, intitolato: "Il tragico destino delle persone che smettono di dormire".
      Il giornalista David Robson sottolinea che si tratta di una specie di coma, vissuto in dormiveglia. Una specie di bolla in cui si possono trascorrere anche anni costellati di notti in bianco, alle prese con ipertensione, tachicardia e perfino paranoia, demenza e allucinazioni, nello stadio più avanzato. È lo stesso, terribile mondo in cui ha vissuto Silvano, un paziente italiano, colpito da insonnia familiare fatale così come i suoi parenti. I suoi primi sintomi sono comparsi a 53 anni, una sera, mentre ballava su una nave da crociera. È morto pochi anni dopo, ma ha deciso di donare il suo cervello alla scienza per aiutare i ricercatori a trovare una causa alla sua malattia e una possibile cura per quella sofferenza.
      Come riporta la BBC, studiando il cervello di Silvano, gli scienziati hanno trovato danni sostanziali nel talamo, causati da una mutazione genetica, comune, dunque, a tutta la famiglia. I danni in quell'area fanno sì che il soggetto non riesca a scivolare nella fase più profonda del sonno, quella in grado di dare ristoro al cervello. Questa regione neurale regola anche la temperatura corporea: quando va in tilt, tutto il nostro sistema, prima minuziosamente regolato, precipita nel caos. "Le pupille si dilatano, si inizia a sudare a profusione - spiega Robson - fanno la loro comparsa impotenza e costipazione. Quando questo controllo 'automatico' del corpo salta in aria contribuisce all'insonnia: il corpo non riesce più, letteralmente, a prepararsi per il sonno".
      A scoprire per primo che i danni si concentravano nell'area del talamo è stato un medico veneto, Ignazio Roiter, che nel 1984, dopo un attento studio degli alberi genealogici delle famiglie colpite, è stato in grado di riconoscere il tipo di ereditarietà e poi, grazie anche all'aiuto di alcuni medici italiani, individuare la zona colpita.
      Oggi i membri di alcune famiglie con tale mutazione genetica hanno deciso di sottoporsi agli unici trattamenti possibili: si tratta della somministrazione dell’antibiotico doxociclina che potrebbe avere un ruolo preventivo nello sviluppo della malattia. Ma c'è ancora molta strada da fare prima di trovare il trattamento che funzioni davvero: al momento, alcuni casi di guarigione possono essere considerati "fortuiti". I parenti di Silvano hanno inizialmente preferito tacere sulla loro sofferenza fino a che, 15 anni fa, hanno deciso di parlarne con il giornalista DT Max, che, nel libro "The Family Who Couldn’t Sleep" ("La famiglia che non riesce a dormire"), descrive l'orrore di queste persone, spaventate dai loro stessi geni. In cerca del "paziente zero", lo scrittore aveva scovato i primi casi addirittura nel diciottesimo secolo. Chissà se, in qualche modo, la scienza riuscirà a rompere il cerchio.
      di Maria Betti tratto da huffingtonpost